I primi otto punti estratti dal Manifesto del Futurismo, sono metafora della scelta del monumento da
adottare. “#sajitta nella Valle del Crati”, rappresenta per noi un titolo d’avanguardia. S’intente con tale termine il “frammento” che resta di un manufatto di archeologia industriale, un vecchio mulino, presente in contrada Gidora di Luzzi (CS), area che si affaccia sulla pianura della Valle del Crati. Nel Medioevo, il paesaggio circostante i mulini ad acqua in Calabria, parte dell’antica Magna Grecia, era caratterizzato da terreni coltivati con ortaggi, uliveti e vasti campi di grano irrigati da torrenti. Lo scrittore Plinio descrive, durante l’epoca di Augusto (63 a.C.-14 d.C.), la costruzione di numerosi mulini ad acqua in Italia, che sfruttavano ruscelli e corsi d’acqua. Marco Vitruvio Pollione, nel suo trattato De Architectura (circa 15 a.C.), illustra il funzionamento dei mulini ad acqua con ruota verticale, noti come mulini “Vitruviani”. Questi erano costruiti lungo fiumi a portata costante, con ruote verticali posizionate sul bordo del fiume e azionate dalla corrente. Tuttavia, in Calabria tali mulini erano rari a causa della portata irregolare dei torrenti. Il loro utilizzo si diffuse maggiormente nel Medioevo, quando l’energia idraulica fu impiegata per macinare i cereali, anticipando in qualche modo la rivoluzione industriale. Questi mulini rappresentavano autentici opifici, spesso realizzati e gestiti dagli ordini monastici, che li utilizzavano per garantire l’autosufficienza delle abbazie. I mulini venivano costruiti a cascata lungo i corsi d’acqua, dove i contadini o i fratelli conversi trasportavano il grano con i muli. In Calabria erano comuni i mulini di tipo greco, adatti a torrenti con portata limitata e irregolare. Il loro funzionamento prevedeva un asse verticale di legno collegato a una ruota orizzontale, immersa nell’acqua sotto il mulino. Questa ruota, dotata di palette chiamate alape e di un mozzo detto miuolo, veniva mossa dalla caduta dell’acqua canalizzata attraverso una doccia o sajitta. L’energia generata faceva girare l’asse verticale, che trasmetteva il movimento alle macine al piano superiore. Le macine, composte da grandi pietre circolari sovrapposte, lavoravano il grano tramite sfregamento: una pietra era fissa, mentre l’altra ruotava. Sopra le macine si trovava la tramoggia, un contenitore a imbuto con un’apertura chiamata fiscella, da cui il grano cadeva lentamente nel foro centrale per essere macinato. La bravura del mugnaio era cruciale per regolare la granulosità del macinato, gestendo lo spazio tra le macine e compensando l’usura delle pietre. La presa d’acqua, posta dietro il mulino, era spesso distante e realizzata con una pescaia di fascine e pietre per deviare l’acqua verso un canale chiamato gorgia o acquaru, che alimentava la doccia. Tra la pescaia e la doccia si trovava una vasca per garantire un flusso costante d’acqua durante la macinazione. Nel Medioevo, il mulino era non solo un’importante innovazione tecnica, ma anche uno strumento di potere, tanto che la sua attività veniva regolamentata e tassata. I mulini avevano diversi usi: i monaci cistercensi, ad esempio, nei secoli XIII e XIV, sfruttavano l’energia idraulica per far funzionare opifici dedicati alla metallurgia e alla siderurgia, i cosiddetti “mulini per il ferro”. Questi azionavano macchinari come pestelli, magli e seghe idrauliche, necessari per lavorare i minerali destinati ai forni di fusione. Nella prima metà dell’Ottocento, Vincenzo Padula osservava che “non abbiamo mulini a mano, né a bestia, né a vapore, né a vento, ma solo mulini a doccia, costruiti sui declivi vicino ai fiumi, dove il paesaggio è sempre piacevole”. Conoscere aspetti di tale portata legati al territorio nel quale gli studenti vivono, rappresenta per gli stessi un momento formativo di eccezionale importanza. Oggi, molti di questi mulini sono abbandonati, nascosti dalla vegetazione e dimenticati dalle nuove generazioni. Recuperarli potrebbe offrire opportunità didattiche o consentire studi sulle antiche tecniche di macinazione, combinandole con l’arte tradizionale della panificazione. In conclusione, la frase di Luciano Canfora: “Ogni storia è sempre contemporanea, per lo meno finché non possiamo liberarcene” acquisisce per noi un valore assoluto: la consapevolezza di non voler liberarcene.
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