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2024-2025 LICEO CLASSICO STATALE “GIOACCHINO DA FIORE” - “#sajitta nella Valle del Crati”
descrizione
I primi otto punti estratti dal Manifesto del Futurismo, sono metafora della scelta del monumento da

adottare. “#sajitta nella Valle del Crati”, rappresenta per noi un titolo d’avanguardia. S’intente con tale

termine il “frammento” che resta di un manufatto di archeologia industriale, un vecchio mulino,

presente in contrada Gidora di Luzzi (CS), area che si affaccia sulla pianura della Valle del Crati.

Nel Medioevo, il paesaggio circostante i mulini ad acqua in Calabria, parte dell’antica Magna Grecia, era

caratterizzato da terreni coltivati con ortaggi, uliveti e vasti campi di grano irrigati da torrenti. Lo scrittore

Plinio descrive, durante l’epoca di Augusto (63 a.C.-14 d.C.), la costruzione di numerosi mulini ad acqua

in Italia, che sfruttavano ruscelli e corsi d’acqua. Marco Vitruvio Pollione, nel suo trattato De Architectura

(circa 15 a.C.), illustra il funzionamento dei mulini ad acqua con ruota verticale, noti come mulini

“Vitruviani”. Questi erano costruiti lungo fiumi a portata costante, con ruote verticali posizionate sul

bordo del fiume e azionate dalla corrente. Tuttavia, in Calabria tali mulini erano rari a causa della portata

irregolare dei torrenti. Il loro utilizzo si diffuse maggiormente nel Medioevo, quando l’energia idraulica

fu impiegata per macinare i cereali, anticipando in qualche modo la rivoluzione industriale. Questi mulini

rappresentavano autentici opifici, spesso realizzati e gestiti dagli ordini monastici, che li utilizzavano per

garantire l’autosufficienza delle abbazie. I mulini venivano costruiti a cascata lungo i corsi d’acqua, dove

i contadini o i fratelli conversi trasportavano il grano con i muli. In Calabria erano comuni i mulini di tipo

greco, adatti a torrenti con portata limitata e irregolare. Il loro funzionamento prevedeva un asse

verticale di legno collegato a una ruota orizzontale, immersa nell’acqua sotto il mulino. Questa ruota,

dotata di palette chiamate alape e di un mozzo detto miuolo, veniva mossa dalla caduta dell’acqua

canalizzata attraverso una doccia o sajitta. L’energia generata faceva girare l’asse verticale, che

trasmetteva il movimento alle macine al piano superiore. Le macine, composte da grandi pietre circolari

sovrapposte, lavoravano il grano tramite sfregamento: una pietra era fissa, mentre l’altra ruotava. Sopra

le macine si trovava la tramoggia, un contenitore a imbuto con un’apertura chiamata fiscella, da cui il

grano cadeva lentamente nel foro centrale per essere macinato. La bravura del mugnaio era cruciale per

regolare la granulosità del macinato, gestendo lo spazio tra le macine e compensando l’usura delle

pietre. La presa d’acqua, posta dietro il mulino, era spesso distante e realizzata con una pescaia di fascine

e pietre per deviare l’acqua verso un canale chiamato gorgia o acquaru, che alimentava la doccia. Tra la

pescaia e la doccia si trovava una vasca per garantire un flusso costante d’acqua durante la macinazione.

Nel Medioevo, il mulino era non solo un’importante innovazione tecnica, ma anche uno strumento di

potere, tanto che la sua attività veniva regolamentata e tassata. I mulini avevano diversi usi: i monaci

cistercensi, ad esempio, nei secoli XIII e XIV, sfruttavano l’energia idraulica per far funzionare opifici

dedicati alla metallurgia e alla siderurgia, i cosiddetti “mulini per il ferro”. Questi azionavano macchinari

come pestelli, magli e seghe idrauliche, necessari per lavorare i minerali destinati ai forni di fusione.

Nella prima metà dell’Ottocento, Vincenzo Padula osservava che “non abbiamo mulini a mano, né a

bestia, né a vapore, né a vento, ma solo mulini a doccia, costruiti sui declivi vicino ai fiumi, dove il

paesaggio è sempre piacevole”. Conoscere aspetti di tale portata legati al territorio nel quale gli studenti

vivono, rappresenta per gli stessi un momento formativo di eccezionale importanza. Oggi, molti di questi

mulini sono abbandonati, nascosti dalla vegetazione e dimenticati dalle nuove generazioni. Recuperarli

potrebbe offrire opportunità didattiche o consentire studi sulle antiche tecniche di macinazione,

combinandole con l’arte tradizionale della panificazione. In conclusione, la frase di Luciano Canfora:

“Ogni storia è sempre contemporanea, per lo meno finché non possiamo liberarcene” acquisisce per noi

un valore assoluto: la consapevolezza di non voler liberarcene.

 

Video
https://player.vimeo.com/video/
Docente referente
Mino Vocaturo
Monumento Adottato
“#sajitta nella Valle del Crati”
Dettagli scuola
TipologiaScuole superiori
RegioneCalabria
ComuneRENDE (CS)
No data

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